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Nella mia adolescenza ho intrattenuto a lungo un colloquio epistolare con una mia carissima amica di Bergamo. Ricordo che una volta, invece di risponderle su un foglio di carta da lettere, le ho spedito solo la busta sulla quale avevo fi ttamente scritto e disegnato. Non so se si trattasse
di una felice intuizione, certo il mio tentativo creativo non venne apprezzato dalla madre che, invitandomi, tramite la fi glia, a non ripetere la performance, frustrò sul nascere eventuali mie aspirazioni mail-artistiche.
Questo per dire come alla base della mail art ci sia un impulso innato a trasgredire, a superare le forme codifi cate dalle convenzioni. L’istinto spontaneo, per confi gurarsi come arte postale, richiede però di essere incanalato in una sequenza concatenata di azioni, dalla ideazione/compilazione del messaggio da parte di chi spedisce, all’elemento dinamico del viaggio, alla recezione da parte di un destinatario certo. La mail art si concretizza lungo una dimensione spazio/temporale che prevede una durata determinata dal gesto dell’invio, inteso come atto liberatorio, ponte gettato dal mittente verso il fruitore, generosa rinuncia a identifi carsi nell’oggetto della propria espressività e quindi dono affrancato dai meccanismi del mercato. Il prodotto artistico si realizza dunque lontano dalla volontà dell’artista che è il motore del processo, divenuto coautore della propria opera che giungerà a termine distante da lui, nel compiersi dell’accettazione da parte del ricevente. Gratuità, libertà e condivisione sono caratteristiche fondamentali di questo movimento che, come più volte è stato notato, trova i suoi presupposti nelle avanguardie del Novecento, dal futurismo a dada, fi no alla sua nascita uffi ciale sulle sponde della ricerca concettuale.
Ciò premesso, è lecito domandarsi se sia possibile conciliare lo spirito libertario della mail art con il vincolo di un tema, seppure nobile, come quello proposto dal concorso quilianese. Il numero eccezionale delle adesioni pervenute al S.A.C.S. da ogni parte del pianeta, la ricchezza delle soluzioni proposte, la diversifi cata appartenenza dei partecipanti, attestano la validità dell’iniziativa e l’interesse suscitato dal tema.
Il Comune di Quiliano, del resto, già da alcuni anni ha scelto di occuparsi dell’arte postale, consapevole della vitalità di un movimento che ha ormai traguardato i limiti cronologici di una normale corrente artistica. Perché la mail art non può essere vincolata a una poetica codifi cata, ma piuttosto rappresenta un mezzo per veicolare idee, intenzioni, emozioni, un supporto dinamico attraverso cui trasmettere i più differenti contenuti artistici. Per questo, si
possono prevedere ancora suoi futuri sviluppi, legati ad esempio a contaminazioni linguistiche provenienti da altri territori, fra tutti quello di internet. La mail art si nutre infatti di una fi tta rete invisibile di contatti a livello planetario, si irradia in senso orizzontale, è paritaria, non conosce gerarchie, si fonda sulla partecipazione trasversale e democratica di artisti affermati, dilettanti, esordienti, perfetti sconosciuti, secondo caratteristiche comuni al mondo di internet, con cui condivide i presupposti, pur nella distanza sostanziale dei processi.
Partendo da questi presupposti il tema lanciato, “I volti dell’Africa”, è stato interpretato attraverso il metalinguaggio postale e, seppure in proporzioni minori, la digital art, utilizzando un lessico differente: poesia visiva, fi gurazione, astrazione, arte concreta, giochi concettuali, semplice espressione, collage, fotografi a. Comune è stata l’intenzione di esserci e di comunicare un proprio pensiero, di condividere un’attenzione. La mostra di Quiliano promuove un’operazione di alto contenuto umanitario, che ben si coniuga con lo spirito della mail art, ciò nonostante, mi piace immaginare che proprio attraverso l’arte postale si possa compiere un’operazione inversa in cui l’Africa sia il mittente e noi il destinatario, fatta non per l’Africa, ma con l’Africa, in cui siano gli ultimi a potere scegliere il messaggio da comunicare perché lo sguardo dell’Africa
non sia ancora una volta il nostro, ma il suo stesso sguardo.