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Nato dagli strati interni della corteccia delle piante, utilizzati come supporto per la scrittura, il libro si avvia a perdere, dopo più di cinque secoli dall’esplosione della Galassia Gutenberg, la cui massa veniva calcolata una decina di anni fa dalla British Library in un centinaio di milioni di unità, la sua configurazione
materiale. Computers, tablets ed altri strumenti elettronici, benché ancora perfettibili, hanno avviato una dinamica ascendente che ha dalla sua l’atout della funzionalità. Se - però - nella sua funzione divulgativa del sapere il libro può temere d’essere soppiantato da sistemi più evoluti (così come le tavolette d’argilla furono scalzate dal papiro e in seguito dalla pergamena) il libro lungo i secoli si è venuto radicando così a fondo nella storia culturale e nell’immaginario umano, da porsi come metafora della natura e del mondo.
Forse per azzardo o forse presagendo il declino del suo impiego nella comunicazione ordinaria, poeti ed artisti hanno offerto al libro una seconda vita, fra espressività e concetto, talora esaltandone forma e componenti materiali, sino a farne un oggetto eminentemente estetico, talaltra puntando sull’azzeramento di ogni dato percettivo, nella linea del “libro vuoto” accennata già a fine Settecento da uno scienziatoscrittore come Lichtenberg. Ma è a partire da “un acte de démence”, come Mallarmé definiva Un coup de dés, che si dipana questa nuova esistenza del libro. Un’esperienza sconvolgente, quasi una rivoluzione copernicana, di fronte alla quale Valery non esitava a confessare: “Mi sentivo come se scorgessi la figura di un pensiero fissato per la prima volta nello spazio. Qui in verità parlava l’esteso, qui sognava, qui produceva forme nate dal tempo. Attesa, dubbio, raccoglimento erano diventate cose visibili. Col senso della vista palpavo pause corporee di silenzio”. Di qui un crescendo: dalle disposizioni mimetiche dei Calligrammes di Apollinaire, agli esplosivi tour de force tipografici delle marinettiane Parole in libertà futuriste; dai duetti fra parole e immagini di Cendrars con Sonia Delaunay (La prose du Transsibérien) e
con Léger (La fin du monde filmèe par l’Ange N.-D.) al design costruttivista di El Lissitzky nel Dlia Golosa
Tullio D’Albisola e Bruno Munari; verso i collages detournés da Max Ernst in Une semaine de bonté e la Boîte verte dove Duchamp raccoglie le note per il Grande Vetro sino a raggiungere le vivaci silhouettes ritagliate da Matisse in Jazz…
Ma è nel secondo dopoguerra che il libro d’artista si affranca completamente dal residuo che in precedenza la legava non di rado alla sfera dell’illustrazione, per trasformarsi in opera in sé conchiusa. Feticcio e oggetto auratico, contenitore per nuovi alfabeti (come non ricordare, in proposito, Les journaux des dieux di Isou?), gioco permutazionale senza termine (Queneau), catalogo tematico di materiali visivi (Ruscha), prototipo di investigazioni strutturali (Gleber), di sole pagine trasparenti (Manzoni) o di istruzioni fuori
schema (Yoko Ono), è venuto costituendo per gradi, analogamente alla mail art, una sorta di disciplina a se stante, coltivata ovunque con intensità, manipolando e combinando creativamente i linguaggi contemporanei.
O, se si vuole, quello del libro d’artista rappresenta ormai uno spazio “altro”, nel quale - come nota Anne Moeglin-Delcroix nel volume Esthètique du livre d’artiste 1960 - 1980 - è possibile ad artisti giovani e meno giovani “produrre liberamente e raggiungere il pubblico, al di fuori dei circuiti ufficiali, più chiusi che mai da quando vi dominano lo star system e la finanziarizzazione dell’arte”. Uno spazio oggi tanto più essenziale - conclude la studiosa francese - “perché non si tratta più soltanto, come all’inizio, di liberare attraverso il libro l’arte dalla mercificazione, ma di resistere alla sua confisca da parte della speculazione borsistica”.